Percosso per le sue iniquità, il popolo, voltandosi, se n’è andato per le strade del suo cuore. Dio, dove sei? Sono qui: il popolo non mi ha cercato. Ma ho visto le sue vie, voglio sanarlo, guidarlo e offrirgli consolazioni. E ai suoi afflitti io pongo sulle labbra: “Pace, pace ai lontani e ai vicini, io li guarirò”. Gli empi sono come un mare agitato che non può calmarsi e le cui acque portan su melma e fango. Non v’è pace per gli empi, dice il mio Dio. (Cfr Is 57, 17-21)

Stiamo vivendo il nostro esodo quaresimale, il processo di liberazione dalla casa di schiavitù per raggiungere la terra promessa, simbolo di vita piena. Il processo è il passaggio attraverso il deserto, luogo in cui Dio dona segni leggibili – acqua, manna, quaglie, legge – e lo scorrere di un tempo prezioso per scegliere la vita. Riprendiamo la nostra riflessione su quanto P. Cosimo Pagliara, O.Carm., ha sottoposto alla nostra attenzione. Il brano di Isaia sostiene la nostra riflessione sulle dinamiche del cuore umano e le dinamiche del cuore di Dio. Elia è nel deserto, nel pieno della sua crisi: paragonabile alle nostre crisi, difficoltà, fughe, nella apparente “assenza di Dio”. Non è certo Lui a nascondersi. Elia preferisce morire piuttosto che vivere una vita difficile e perde la capacità di vedere Dio. Riceviamo continuamente testimonianze di persone sfinite, anche ridotte alla minima espressione umana, che riescono a celebrare la vita, a dare più che a chiedere consolazione. Diventano fari che illuminano con luce penetrante, i meandri della complessità umana, i grovigli di emozioni, fragilità, peccato. Ci aiutano a celebrare il mistero pasquale di morte e resurrezione. Mentre erano sotto la ginestra, hanno accolto e consumato il cibo di Dio, il pane e l’acqua della consolazione. Tanti altri sono davanti a noi come sconfitti che sembrano aver perso le speranze: forse tra questi siamo anche noi, impantanati nella melma e nel fango sollevato dall’empio mare agitato. Tutti abbiamo provato scoraggiamento, sperimentato sofferenza ed errore, tutti siamo passati per l’umiliazione e il ravvedimento, la riformulazione di propositi di bene. Non siamo migliori dei nostri padri, lo diciamo con il Profeta. Elia non percepisce più la bontà della sua vita, la preziosità di ogni momento vissuto nell’opportunità di recuperare somiglianza con l’Amore che lo ha creato e lo rende partecipe del Suo essere infinito. L’angelo arriva proprio nel momento estremo della crisi di Elia, prostrato sotto la ginestra. Elia non rifiuta il cibo ma quel primo intervento del Signore non gli è sufficiente per recuperare le energie psicologiche: non ha voglia di vivere. Dio insiste: offre l’esperienza di sentirsi amato, è questa la sua tenerezza paterna. Non c’è consolazione più grande. Nel momento della fragilità possiamo sperimentare una forza straordinaria donata dal cielo, come ci ricorda san Paolo, perché Dio non tarda a manifestarsi: quando sono debole è allora che sono forte (2 Cor 12, 10). Ecco la consolazione: se nella debolezza c’è la forza, vuol dire che riconoscere la nostra condizione di fragilità è lasciar spazio a Dio perché operi nella nostra vita con la forza dell’amore che non tradirà mai. Non ha senso tentare di nasconderla o fuggirla, emergerà sempre e ci allontanerà dalla consapevolezza di un Dio che è Padre, di un Figlio che si è fatto uomo sperimentando fino in fondo la debolezza della carne eccetto il peccato, di uno Spirito Santo che guida, illumina, squarcia i veli della conoscenza.

Ad Elia è chiesto di “rinunciare” al proprio tempo per accogliere il tempo di Dio. Con la forza di quel cibo, offerto per la seconda volta e finalmente reso energia nuova di cui disporre, Elia cammina quaranta giorni e quaranta notti, percorrendo a ritroso il percorso del popolo di Israele, fino al monte di Dio: persevera nel cammino delle notti e dei giorni. Il tempo della crisi non è nelle nostre mani ma nelle mani di Dio. Elia temeva la morte della religione, perdita della fede, dei valori, di Dio. Noi?

Sr M. Daniela del Buon Pastore, O.Carm.